mercoledì 13 novembre 2013

PENA RIDOTTA MA SEMPRE INGIUSTA



Poco più di due ore sono state sufficienti per la decisione della Corte d’Appello di Genova che doveva limitare il suo intervento alla richiesta della Cassazione di valutare le eventuali riduzioni di pena a carico di cinque manifestanti coinvolti negli avvenimenti di Genova 2001. E’ utile ricordare che i pm Anna Canepa e Andrea Canciani accusarono venticinque manifestanti di essere responsabili di tutto quello accaduto a Genova il 20 e 21 luglio, ricorrendo addirittura al rispolvero di un articolo del codice fascista Rocco, recepito nell’ordinamento ma mai applicato prima, che prevede il reato di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. I successivi tre gradi di giudizio avevano in gran parte smentito la incredibile elaborazione dei pubblici ministeri e in Cassazione quindici di quei venticinque vennero o assolti o condannati a pene minime cadute in prescrizione, perché ritenuti responsabili al più di un “reato di resistenza” (che sarebbe davvero assurdo considerare tale), nel senso che le loro azioni erano state provocate da “cariche violente e ingiustificate” dei reparti di carabinieri. Per i restanti dieci, quasi come compensazione, vennero confermate pur con qualche riduzione pene rilevantissime per reati comunque riconducibili a danni alle cose e non a persone (in appello si erano erogati fino a 16 anni di carcere e anche in questo caso va ricordato che quattro poliziotti delinquenti riconosciuti responsabili dell’omicidio di Federico Aldrovandi sono stati condannati ciascuno a tre anni e mezzo, quindi quattordici anni in tutto). La Cassazione chiese per cinque di essi di ritornare in Appello per la valutazione delle attenuanti. La sentenza ha accolto in gran parte le richieste della difesa e per quattro dei cinque ha ridotto la pena di due anni, cosa che consentirà almeno l’affidamento ai servizi sociali.


E’ significativo rimarcare che nella requisitoria il Procuratore generale si è dichiarato favorevole alla riduzione della pena, anche se in misura inferiore a quella poi decisa dalla Corte. Una delle ragioni fondamentali di questa posizione sta nella convinzione espressa nelle requisitoria che a determinare il comportamento degli accusati vi erano stati anche gli abusi delle forze dell’ordine e la follia nella gestione dell’ordine pubblico che caratterizzò quelle tragiche giornate. Nulla di diverso, quindi, dalle motivazioni della stessa sentenza della Cassazione. Ma ancor più nulla di diverso dalla sentenza con la quale un’altra sezione della Cassazione aveva concluso il processo per la macelleria  messicana alla scuola Diaz. I più alti gradi della polizia, altissimi grazie anche alle promozioni che nel frattempo erano intervenute, sono stati condannati a quasi cinque anni di carcere (che non faranno mai!), ma soprattutto a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, già avvenuta. La motivazione consiste nell’aver “prodotto il degrado dell’onore dell’Italia nel mondo”. E si riferisce al falso vergognoso commesso da questi ignobili dirigenti, che obbligarono dei sottoposti a introdurre nella scuola due bottiglie molotov al fine di poter incolpare i 93 innocenti che dormivano nella scuola del reato di terrorismo. Va segnalato, a conferma della difficoltà di fare del nostro un paese davvero civile, che quegli alti dirigenti risultano tuttora insigniti di onorificenze al merito della Repubblica (d’altra parte è sempre cavaliere anche il presidente delinquente!). 


L’esito del processo Diaz (va ricordato che in primo grado erano stati tutti assolti, e che il giudizio si era piegato alla volontà politica di considerare l’operazione Diaz una “perquisizione legittima”, come tutto il peggior ciarpame della destra e del gruppo dirigente si ostinava a ripetere) si deve alla dignità professionale, alla coerenza morale e al coraggio di Enrico Zucca e di Francesco Cardona Albini, i due pubblici ministeri che si batterono ostinatamente perché giustizia fosse fatta, nonostante minacce e ritorsioni. Quella sentenza, nel buio che spesso circonda i peggiori “delitti” dello Stato, deve essere considerata davvero illuminante, e i suoi dettati si sono certamente riflessi anche nell’esito che ha avuto oggi la sentenza d’appello che ha riguardato le attenuanti per i manifestanti.
E’ difficile dimenticare che per sostenere quella sentenza fu decisivo un filmato di pochi secondi che riprese tutto il gruppo davanti alla scuola a gingillarsi fra le mani un sacchetto di plastica blu contenente le due molotov; mentre interi filmati e centinaia di fotografie non furono sufficienti a impedire l’imbroglio di quattro consulenti (lo sparo per aria!) e la decisione di due magistrati inadeguati di archiviare l’omicidio di Carlo sottraendolo anche a un dibattimento processuale.

giovedì 4 luglio 2013

UNA CARRIERA SENZA FINE



A volte ci sono nomine che suscitano qualche perplessità. Perché non si conoscono le competenze specifiche dei nominati, o perché è difficile individuarle. Perché riguardano protagonisti di vicende precedenti che consentono di sollevare dubbi. Perché alla fine sembra che l’unica logica sia quella dei meccanismi del potere. L’ultimo esempio, forse, lo può fornire la proposta di nominare Gianni De Gennaro presidente di Finmeccanica. E in questo caso si tratta certamente di un percorso incontrastato lungo il potere. Con caratteristiche bi-partizan, potremmo dire.
Dopo aver preso parte all’estradizione di Buscetta e assunto l’incarico di dirigente della Criminalpol, De Gennaro viene nominato vicecapo della polizia da Maroni, che è ministro degli Interni nel primo governo Berlusconi (1994). Manco a dirlo, Amato lo promuove capo appena giunto a presiedere il governo di centrosinistra, nel maggio 2000. Poi c’è Genova, la Diaz, ma di questo parliamo più avanti.
Nel 2007 Amato è ministro degli Interni nel governo Prodi: quale migliore occasione per nominare De Gennaro capo di gabinetto, e dirigere così nomine e promozioni di prefetti e questori! Un anno dopo Prodi scopre che c’è l’emergenza rifiuti in Campania. Ci vuole l’uomo giusto, e tacchete, De Gennaro viene nominato commissario straordinario. E’ l’11 gennaio 2008. Il problema è pesante, l’incarico non produce effetti positivi, la monnezza dilaga. Per fortuna Prodi cade, torna B. e il 26 maggio un’altra gloriosa b (ovviamente Bertolaso) sostituisce De Gennaro, che si consola con la direzione del DIS, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Poi, con Monti, un’altra promozione: sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega ai servizi. Secondo alcuni questo potrebbe essere un intoppo alla prevista nomina, perché chi ha assunto incarichi di quel tipo non può assumere il nuovo ruolo nei successivi 12 mesi, cioè fino all’aprile 2014. Ma un marchingegno lo si troverà certamente, anche Napolitano è d’accordo.


In mezzo ci sono Genova e La Diaz. Rileggiamo le  motivazioni della sentenza della Cassazione con la quale i più alti dirigenti della polizia, fra i quali Francesco Gratteri, tutti uomini di De Gennaro, sono stati condannati a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. “… la decisione di irrompere nella scuola Diaz era stata preceduta dalla seconda riunione, tenutasi presso la Questura di Genova, e Gratteri - secondo la direttiva giunta dal capo della polizia che richiedeva un’attività più incisiva dopo i gravi fatti che avevano interessato la città di Genova – aveva assunto la funzione di comandante secondo la linea di comando, una volta venuta meno la figura di Andreassi, il quale non aveva partecipato alla seconda riunione in quanto dissociatosi dalla linea assunta per lo svolgimento dell’operazione, sconsigliata – a suo dire – anche dall’allora indagato La Barbera, come già evidenziato, il quale aveva notato “questo nervosismo”, aveva “subodorato che le cose non sarebbero andate bene, perché ognuno conosce gli animali suoi”.
Nell’aprile 2008 era stato richiesto il rinvio a giudizio per De Gennaro per istigazione alla falsa testimonianza nei confronti dell’ex questore di Genova Francesco Colucci. Dopo l’assoluzione in primo grado e la condanna in appello, il terzo grado lo ha assolto nel novembre 2011. Ma la motivazione della sentenza della Cassazione che abbiamo riportato non si presta ad equivoci: c’è una responsabilità nell’aver “richiesto un’attività più incisiva”, e di quale incisività si sia trattato e fin troppo noto per doverlo ricordare ancora una volta.
Allora il punto resta sempre lo stesso di tante, troppe volte. In qualunque altro paese civile un individuo che può essere ritenuto in qualche modo responsabile, anche se non penalmente, di fatti di tale gravità conclude immediatamente la sua attività pubblica, non viene nominato sottosegretario, non dirige i servizi. A nessuno viene in mente di proporlo alla guida della maggiore industria pubblica esistente. Ah già, ma noi abbiamo il governo Lupetta!

giovedì 27 giugno 2013

NON SI ARCHIVIA UN OMICIDIO



Negli ultimi giorni molta stampa è tornata ad occuparsi dell’omicidio di Carlo. Ha cominciato addirittura il Corriere della sera, verrebbe da dire nonostante Mieli e Battista, segnalando l’indizione della causa civile per avere finalmente la possibilità di un dibattimento in un’aula di un tribunale e anche importanti dettagli sullo svolgimento dei fatti. Poi il Messaggero, Repubblica (l’edizione genovese è sempre stata presente sulla vicenda), il Corriere Mercantile. Una brava giornalista del Secolo XIX mi ha intervistato davanti a un computer sul quale scorrevano le immagini di quel terribile pomeriggio di dodici anni fa. Ne è nato un filmato di oltre sette minuti apparso sulla pagina on-line del quotidiano genovese che alcune migliaia di persone hanno visto (oltre naturalmente ai molti amici di FB che hanno condiviso il link). Dico alcune migliaia perché il contatore dei “mi piace”, sicuramente non cliccato da molti visitatori, ha superato quota mille e cento. Pochi i commenti, una decina, fra i quali spiccano ovviamente quelli di qualche idiota, o carabiniere, o fascista (a volte le tre caratteristiche si sommano nello stesso individuo, come è stato dimostrato la sera del 20 luglio 2001 dal canto di “faccetta nera” che si levava dalla Foce di Genova, dove erano acquartierati proprio i reparti dei carabinieri impegnati nelle azioni repressive più violente). Tra quelli meno volgari sono ricorrenti alcune sottolineature: passamontagna, voglia di uccidere con l’estintore, e naturalmente camionetta circondata da un numero enorme di violenti, impossibilità di difendersi altrimenti e via con le falsità.
Sono dodici anni che cerchiamo di spiegare e dimostrare, sulla base della enorme documentazione, come si sono svolti i fatti, e quindi ripropongo qui le osservazioni che ritengo più significative. Chi si ostina a ripetere fino alla noia le veline del regime non vuole rispondere a una prima domanda essenziale: perché quel reparto di cc, che è comandato da un gruppo di élite (così si dice senza imbarazzo) e che ha partecipato fin dalla Somalia (1994) a tutte le campagne di guerra Iraq e Iran compresi, va all’attacco di fianco al corteo di via Tolemaide, senza alcuna motivazione razionale e oltretutto aggirando l’aiola centrale di piazza Alimonda per creare un effetto sorpresa? E perché (seconda domanda) in quel tratto di via Caffa ci sta meno di un minuto e poi scappa a gambe levate, dicendo che erano attaccati da migliaia di violenti, che dai cinquanta reali diventano migliaia perché altrimenti la fuga del reparto si tramuterebbe in reato di codardia? E perché (terza domanda) quando le due camionette si ostacolano a vicenda (ma gli fanno almeno un corso di guida?!) una di esse, accostatasi a un cassonetto della spazzatura che è lì da un’ora, non lo spinge perché l’autista non vuole far male a un collega che da dietro il cassonetto spruzza verso i manifestanti? E soprattutto perché (quarta domanda) gli ottanta cc con tanto di tenente colonnello in testa non intervengono in difesa della camionetta sul retro della quale non ci sono migliaia di violenti ma sedici manifestanti giustamente esasperati (fra i quali si devono contare già alcuni fotografi)? Tutto ciò costituisce una chiara e manifesta responsabilità dello Stato attraverso quelli che in quella circostanza sono, purtroppo, i suoi rappresentanti. 


Le distanze che si desumono da alcune fotografie non tengono conto che si sono usati teleobiettivi molto potenti. Ma se metti a confronto quelle scattate da due diverse angolazioni tutto diventa chiaro. Così quando un filmato mostra un manifestante con casco giallo che solleva da terra un estintore (portato fin lì da un cc) e lo lancia verso il portellone del defender, la distanza effettiva di quel manifestante dalla jeep è di oltre quattro metri. Stessa cosa per quanto accade dall’altra parte sulla destra della jeep. Carlo arriva a mani nude, il passamontagna gli hanno consigliato di indossarlo per difendersi dal gas CS (velenoso e cancerogeno) contenuto nei candelotti (ne hanno sparati più di seimila in due giorni). E’ distante. Vede che l’estintore, che non ha causato danni agli occupanti, è rotolato a quattro o cinque metri dal retro della jeep. Vede che sul defender un occupante impugna una pistola e mette il colpo in canna. Va a raccogliere l’estintore e, senza avanzare di un centimetro, lo raccoglie per cercare di disarmare chi vuole sparare e minaccia di uccidere. Partono due colpi, diretti. Il primo colpisce sotto l’occhio sinistro Carlo, che rotola verso la jeep. L’autista, che parla di panico e di motore spento (non è vero), ingrana la retromarcia, passa su Carlo, ingrana la prima, ripassa su Carlo e sparisce di scena in quattro secondi. Dopo meno di due minuti, quando Carlo steso per terra è circondato da un robusto cordone di cc e poliziotti (il reparto di ps è risalito da piazza Tommaseo), succede una cosa per certi verso persino più terribile: un cc gli spacca la fronte con una pietrata (c’è ancora un’attività cardiaca) e subito dopo il vice questore Adriano Lauro (che tirava i sassi ai manifestanti in via Caffa) accusa un manifestante che ha gridato giustamente “assassini” alle forze del disordine schierate di avere ucciso Carlo con un sasso. Poi, un anno dopo, si aggiungerà l’imbroglio dei quattro consulenti del pm che inventano lo sparo per aria e la deviazione da parte di un calcinaccio che vola nel cielo di Genova.
Chi ha sparato? Dicono Placanica, e per questo citiamo lui nella causa civile, oltre a Lauro, che è responsabile in piazza delle operazioni. Vogliamo un processo per portare in un’aula di tribunale la documentazione che avete visto nel filmato del Secolo XIX e smentire così tutte le falsità che ci, e vi, hanno raccontato. Quella documentazione e tanta altra ancora. Non portarla, spostarla da una stanza all’aula, perché tutta quella documentazione viene proprio dal tribunale di Genova. Solo che chi avrebbe dovuto valutarla si è ben guardato dal farlo. Meglio archiviare.
A luglio esce il libro che ho scritto: Non si archivia un omicidio. Chi sa se qualcuno dei commentatori non del tutto idioti vorrà documentarsi ancora un po’!

domenica 23 giugno 2013

L’IVA E LE SCIOCCHEZZE

La CGIA di Mestre è considerata una struttura che sa far di conto e quindi prendiamo per buoni i suoi dati. In aprile ha pubblicato una interessante tabella per illustrare le ricadute dell’aumento di un punto dell’IVA. I dati apparvero sulla stampa per qualche giorno poi scomparvero, quando il tono politico cominciò a essere quello della “mannaia calata sulle teste degli italiani”, di un “ulteriore aggravio della recessione”, di una“manovra che colpisce ancora di più la crescita”. Perché? Perché i dati confermavano un’altra storia e dimostravano che erano ben altre le scelte e le decisioni che colpivano gli italiani, e in particolare quelli più deboli. Dei quali le scelte di governo si occupano solo verbalmente, per convenienza, e mai sul serio.
E allora guardiamo i dati della tabella della CGIA e commentiamoli.
Prima questione. L’aumento di un punto comporterebbe un aggravio di 103 euro su base annua (8,58 al mese) per una famiglia di 4 persone in grado di spendere 31.278 euro nel corso dell’anno. Documenta la CGIA che per una famiglia di 3 persone l’aggravio annuo sarebbe invece di 88 euro (7,33 al mese), con una capacità di spesa ovviamente ridotta. E’ interessante vedere come la CGIA ha individuato i settori di spesa della famiglia di 4 persone, ricordandone i principali. Ci sono ad esempio 7.400 euro di spesa alimentare, per i quali l’incremento annuo dell’IVA sarebbe di soli 2 euro (occorre ricordare che i prodotti fondamentali, pane pasta riso latte verdure, hanno l’IVA al 4%, carne pesce formaggi al 10%, ma per questi non è previsto nessun aumento; un prodotto colpito sarebbe lo spumante, ma è difficile considerarlo un bene primario, e in ogni caso la CGIA prevede che quella famiglia ne faccia un moderato consumo dal momento che prevede una maggiorazione su base annua di 2 euro!). Altri 2500 euro per abbigliamento, 2000 per i mobili, 1770 per il tempo libero la cultura e i giochi, 4300 per non meglio identificati beni e servizi, 729 per comunicazioni (accidenti ai telefonini!) e ben 6358 per i trasporti (sarebbe il caso che in quella famiglia si facessero qualche abbonamento).


Ma la cosa strabiliante è che i 103 euro di aggravio sono calcolati per una famiglia in grado di spendere più di 31 mila euro, quindi netti. Non viene in mente a nessuno di comparare questo dato con le dichiarazioni dei redditi? Per avere un netto di 31 mila euro il reddito lordo deve essere di 45.000 euro. Ebbene: la metà dei contribuenti italiani denuncia un reddito inferiore a 15.723 euro; il reddito medio per tutti i contribuenti è pari a 19.655 euro; quello dei lavoratori dipendenti è pari a 20.020 euro; quello dei pensionati a 15.520. Naturalmente, quello degli imprenditori è pari a 18.884, perché, come è noto, un padrone guadagna meno di un operaio che lavora per lui!
Allora, per famiglie normali, anche se lavorano in due, il reddito disponibile per la spesa è molto inferiore a quello sul quale la CGIA ha impostato i suoi calcoli, per altro giusti. Ed essendo inferiore, è persino ovvio che le riduzioni di spesa riguardino mobilia, abbigliamento, generici beni e servizi, cultura (purtroppo!) e trasporti (meglio abbonamenti e a piedi, quando è possibile!). Non riducendo le spese alimentari, per le quali l’aumento è come detto assolutamente ininfluente, si può dedurre che per una delle tante famiglie “normali” l’incidenza dell’aumento dell’IVA è pressoché prossimo allo zero o al più si riduce a qualche centesimo di euro al mese. E allora? La mannaia, la crescita colpita, la recessione? Tutte balle, tutto fumo negli occhi, pure campagne elettorali di queste bande farneticanti che pretendono di governarci. Il problema è che l’IVA sullo yacht e sulla Ferrari con l’aumento di un punto produrrà un aggravio di 10, 20 mila euro, e a quei maiali che si devono comprare lo yacht e la Ferrari dispiace! I consumi diminuiscono perché aumenta la povertà, perché aumentano disoccupati, precari, esodati, perché crescono le preoccupazioni e le angosce per il futuro. Ma di questo le caste non si occupano.
Basta vedere che fra le proposte per recuperare il gettito del punto in più di IVA (2 miliardi nei prossimi sei mesi, 4 e qualcosa il prossimo anno) c’è anche quella di aumentare le accise sulla benzina. Sono anche dei veri idioti: l’aumento del costo della benzina è stata una delle concause della riduzione degli acquisti di carburante (non male rispetto all’inquinamento, ma comunque un segnale di restringimento del reddito), e il calo del gettito fiscale proveniente dalle vendite è stato più alto del guadagno previsto con l’aumento delle accise!

Alla prossima.

martedì 11 giugno 2013

VOTO: ANALISI DI UNA VOLTA

Già, una volta. Non solo si votava diversamente, ma anche l’analisi del voto era più seria. Intanto perché non ci si basava sulle percentuali, spesso ingannevoli, ma sui voti effettivi. E allora proviamoci.
Un dato è certo: in tutte le città capoluogo a cominciare da Roma nelle quali si è votato al ballottaggio, il candidato del PD e della coalizione che lo sosteneva hanno vinto superando il numero di voti ricevuti al primo turno, e ciò nonostante la crescita dell’astensionismo. Succede appunto a Roma, dove Marino acquisisce oltre 150.000 voti in più nonostante 183 mila votanti in meno, mentre Alemanno si deve accontentare di 10 mila voti in più, la metà di quelli che al primo turno sono andati a liste della destra fascista, i cui sostenitori avranno pur riconosciuto una vicinanza con le origini dell’ex sindaco. Non credo possano esistere dubbi sul fatto che una parte consistente dei voti grillini del primo turno (erano stati più di 130 mila) siano andati a Marino, che oltre tutto li aveva esplicitamente richiesti. Ma la stessa cosa avviene a Brescia (Del Bono guadagna più di 12 mila voti mentre il pidiellino si deve accontentare di un incremento  di soli 2 mila voti), a Treviso (Manildo migliora di 4 mila voti mentre il trucido sceriffo leghista si ferma a 3 mila) e a Imperia (il candidato piddino conquista 3 mila voti in più mentre il pidiellino scajolano arretra addirittura di 2 mila voti). Il PD festeggia con un 16 a 0 il voto delle grandi città, alle quali potrà probabilmente aggiungere le quattro città capoluogo della Sicilia, realizzando un vero cappotto: 20 a zero (e prima delle elezioni il punteggio era di parità, 10 a 10, ma con dentro città come Roma, Brescia, Vicenza, Viterbo, Catania, Messina che erano tutte a gestione berluschina).


Dalla Sicilia viene un risultato importante: la quasi scomparsa del movimento grillino. Alcuni dati, fra quelli pervenuti dato l’allucinante ritardo nello spoglio, la dicono lunga. A Catania, dove vince Bianco al primo turno (e non è una bella cosa, dato il livello dell’individuo) Grillo retrocede dai 18 mila voti delle regionali del 2012 e dai 48 mila delle politiche di tre mesi fa a 5.869 voti. Idem a Siracusa: dai 19 mila del 2012 e dai 22 mila e passa di tre mesi fa a 2.315 voti. Buffoni del calibro del comico e di quel sedicente filosofo genovese dicono che hanno vinto a Pomezia, in un paesino sardo e che, forse, vanno al ballottaggio a Ragusa. Chi si contenta gode, dice un tiepido proverbio, ma la questione sembra proprio un’altra: tre mesi di figuracce, di insipienza, di non fare nulla rispetto alle promesse hanno già stancato e disilluso una fetta enorme di cittadini che a quel movimento si erano rivolti attratti dalle imprecazioni contro la casta, assolutamente giuste ma altrettanto assolutamente insufficienti a determinare un orientamento politico e soprattutto una strategia con la quale tentare di portare a soluzione almeno uno dei problemi che affliggono sempre di più il paese.
Resta impressionante la celerità con la quale si cambia opinione nei confronti delle cinque stelle contrapposta alla lentezza con la quale ci si allontana da quel buco nero della decenza e della politica rappresentato dalla truppa berlusconiana. Ma può destare impressione anche il fatto che, nonostante l’inciucio, altrimenti detto larghe intese dai suoi promotori, e il conseguente governo Lupetta (ringrazio ancora una volta Crozza per una delle sue genialità: Lupi+Letta=Lupetta!), una parte ancora così rilevante del corpo elettorale, per quanto ulteriormente ridotto dall’astensione, abbia dato fiducia al PD. Conta indubbiamente la logica del meno peggio, anche se non sempre è così (nel senso che al peggio non c’è mai fine!) o in qualche caso non lo è davvero (vedi Roma, dove sicuramente la scelta di Marino è stata un’ottima scelta, basta guardarsi indietro!). Credo che prevalga lo smarrimento derivante dalla assenza di alternative. E qui il discorso ritorno al dramma della sinistra, al suo sempre più ridotto consenso, alla incapacità di offrire risposte credibili, alla sterile contrapposizione tutta ideologica e mai nel merito delle questioni. Oltre a prove di vero e proprio istinto suicida. L’altro giorno sentivo un compagno di Rifondazione esaltare con convinzione il bisogno di correnti all’interno di un partito. Come dire che, superata in discesa la soglia dell’1% ci si debba limitare alla conquista del 2 o 3 per mille dei consensi.
No, non credo proprio che quel terzo abbondante di cittadini che non votano si possano interessare alle dispute correntizie. Facciamo qualcosa prima che quel terzo diventi metà o anche più. E soprattutto non consoliamoci con la raggiunta assimilazione all’andamento presente in molti paesi dell’occidente. In quei paesi non si era mai superata la soglia del 90% di partecipazione e quindi i loro livelli attuali sono un lento calo, non un precipizio. Se c’è un precipizio ci casca dentro anche ciò che resta della democrazia.

mercoledì 29 maggio 2013

NON SI VOTA PIÙ COME UNA VOLTA!

Ho appreso su FB che, per cercare di attenuare il crollo di consensi registrato nelle recenti elezioni amministrative, il guru delle stelle ha paragonato il recente voto di Roma con quello di cinque anni fa. Dal che risulterebbe uno strepitoso aumento del 222%! Solo un cialtrone come lui potrebbe essere capace di una cosa così azzardata. E lo conferma il fatto che i crolli degli altri (PD e PdL) sono calcolati non sulla base delle minori percentuali di voto registrate ma in percentuale sul calo dei voti ricevuti. Insomma, se gli elettori erano 100 e un partito aveva 50 voti, la sua percentuale era 50%; se poi votano in 50 e i voti ricevuti sono 25 non conta il fatto che la sua percentuale sia rimasta pari al 50%, conta invece che abbia perso il 50% dei voti (altra cosa sarebbe la preoccupazione per il calo enorme di affluenza al voto, ma di questo parliamo più avanti). Ovviamente è ridicolo che il cialtrone faccia il confronto con cinque anni fa, all’esordio del M5S, e non invece con il voto di tre mesi fa, cioè con l’altro ieri. Oltretutto a Roma si era votato negli stessi giorni anche per le regionali, vicine quindi alla logica di un voto amministrativo, e il candidato di Grillo, pur perdendo 120.000 voti rispetto al voto delle politiche (già è incredibile che 120.000 elettori cambino voto cambiando scheda!), aveva comunque ottenuto 316.923 voti, pari al 20,09%, oltre 185.000 voti in più di quelli che tre mesi dopo porta a casa il candidato sindaco, con il 12,8%.
Credo che non possano esserci dubbi sul fatto che: cianciare di scontrini; rifiutare ogni logica di governo del paese; limitarsi alle condanne dei servi dell’informazione, mistificando oltretutto il fatto innegabile che la presenza in ogni talk-show delle comparsate di Grillo nelle piazze ha certamente favorito il consenso alle liste del movimento; tutto ciò abbia deluso centinaia di migliaia di elettori (potremmo dire quasi 5 milioni se il dato si riflettesse sulla platea nazionale). Il risultato negativo pare stia creando rabbia e dissenso fra molti degli eletti. Non ci sono fra questi soltanto quelli che non intendono rinunciare così presto ai privilegi e ai soldi che le cariche parlamentari e amministrative consentono. Credo che ci siano tanti, a differenze di chi indecorosamente li rappresenta e si arroga il diritto di esserne ispiratore e portavoce, a essere davvero già stanchi di questo modo inconcludente di condurre una battaglia politica, specialmente in presenza di una crisi gravissima che ogni giorno aumenta in dimensione e pericolosità. Speriamo che qualche risultato si concretizzi.


Dicevo del dramma dell’astensione. E’ di una dimensione spaventosa. Mette in secondo piano il fatto, pur positivo, che la destra abbia perduto consensi e che il ballottaggio potrebbe garantire a tante città una guida meno oltraggiosa di quelle precedenti della destra. Penso a Brescia, a Treviso, soprattutto a Roma: se qualcuno pensasse che Marino e Alemanno sono la stessa cosa lo inviterei a farsi ricoverare in psichiatria! Ha scritto Massimo Giannini qualche giorno fa su Repubblica: “Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana il mio voto non serve”. Si può aggiungere che purtroppo questo modo di pensare è presente proprio negli strati più deboli della popolazione. Ed è la contraddizione più lacerante, perché chi è forte, chi sta bene, chi è ricco, può anche fregarsene di chi e come si governa, mentre è proprio chi è debole che dovrebbe vedere garantito da qualche scelta di governo il diritto a forme di protezione. E invece no.  E’ proprio nei quartieri popolari che si era fatto avanti in modo prorompente il fenomeno grillino come espressione di sfiducia nella politica e che oggi si è registrata la più alta percentuale di astensione.
Che cosa conta la sinistra definita radicale? Il voto di Roma segna la definitiva scomparsa. Un candidato sindaco di valore, Medici, già valido e apprezzato presidente di un Municipio, raccoglie con una sua lista e con quella di Rifondazione e Comunisti italiani (fermi all’1,14%) soltanto l’1,99%. Oltre mille voti in meno di quelli raccolti dalla destra di Storace, Casa Pound e Forza nuova. C’è di che rabbrividire. O si comprende che si deve cambiare quasi tutto o il volontariato di quanti ancora pensano di fare qualcosa di utile per il paese e per i lavoratori è destinato a produrre soltanto frustrazione. Lo ripeto ancora una volta: i simboli e i nomi che pensiamo possano riassumere gli ideali e le giuste aspirazioni di cambiamenti profondi nell’assetto della società devono essere sostituiti da programmi concreti e realizzabili sui quali provare ancora a coinvolgere le persone. Non possiamo più ignorare che cosa la gente alla quale ci dovremmo rivolgere associa alla parola “comunismo”: senza andare indietro e stare all’oggi, il fatto che i principali miliardari del mondo siedano nel comitato centrale del partito comunista cinese, che i nordcoreani siano governati da un buffone coi capelli crestati che vorrebbe sommergere gli USA di missili lanciati con la fionda. La stessa Cuba, che a parte il familismo ha sicuramente realizzato riforme più che sane e condivisibili, ha una popolazione di 11 milioni che rispetto ai 7 miliardi di popolazione mondiale sono del tutto non rappresentativi.

Allora il riferimento ideologico non serve, può essere solo un diversivo. Forse una lista civica nazionale con un programma chiaro e leggibile potrebbe rappresentare un elemento di positività. Con il quale misurarci di nuovo nei quartieri, a cominciare proprio da quelli nei quali l’astensione dal voto può segnalare un bisogno inascoltato.

martedì 30 aprile 2013

TRA MINORANZE E ASTENSIONI



Nel fondo di Repubblica di oggi Ezio Mauro scrive, fra l’altro, che “le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo”.
Mi sembrano opportune alcune note. La prima. La legge elettorale è senz’altro sciagurata, ma soltanto una legge ancora più sciagurata potrebbe fare diventare maggioranza assoluta una di quelle minoranze, violando così ogni decente regola democratica. Mi suggerisce un amico che, con la previsione di una modifica del Senato e conseguente affidamento alla sola Camera del voto di fiducia, la sostanza dell’attuale legge maggioritaria col suo premio esagerato non sarà mai cambiata perché garantirà a Berlusconi altri anni di potere, visto come stanno andando i sondaggi dopo quella che, comunque la si voglia vedere, è una vittoria strabiliante del cavaliere.
La seconda. Le tre minoranze nelle quali è diviso il parlamento (tre, giustamente, perché la quarta, la cosiddetta lista civica montiana è già di fatto sciolta e predisposta al rientro nel centrodestra) sono soltanto la conseguenza di una divisione esistente nel corpo elettorale, cioè nel Paese. E quindi occorrerebbe partire da qualche analisi che possa spiegare questa condizione. Peraltro già esistita in qualche modo anni fa, quando la rottura della unità a sinistra portò il PSI ad essere terza forza aggiunta alle due maggiori, DC e PCI.

La terza. Alla fine due di quelle minoranze sono state capaci di formare una maggioranza di governo: sobria, giovanile, con sufficiente equilibrio di genere, un po’ meno nell’equilibrio di posizioni politiche rispettando invece il dogma della ricostruzione democristiana. L’esatto contrario di quelle che erano state le promesse elettorali di cambiamento del PD, e invece, quanto ai programmi illustrati nella relazione in parlamento, del tutto prone alle sbandierate e demagogiche proposte della destra, IMU e IVA in testa (vedremo dove troveranno i soldi per farlo).
Ma aggiungo una questione fondamentale. Il corpo elettorale che ha determinato le tre minoranze è, se si considerano anche le schede bianche e le schede nulle, poco più della metà della popolazione adulta del Paese. In questa enorme quantità di cittadine e cittadini c’è una ferrea unità rappresentata dallo schifo e dalla nausea per la politica? O anche in quegli oltre venti milioni ci sono minoranze incomunicabili? Certo, c’è chi non vota perché è assolutamente indifferente nel senso che non ha problemi, ha risorse proprie che non lo fanno dipendere dalle scelte del governo. Ci sono anche quelli che non votano perché glielo ha ordinato il capomafia, e anche quella risibile minoranza veteroideologica che non vota per scelta “di classe”, consegnando la scheda al segretario di circolo perché non si sa mai. Non credo tuttavia che siano molti.
Tutti gli altri, allora. Non sarebbe utile cercare di capire chi sono, come vivono, che cosa hanno davvero in testa, quali problemi li invitano a dissociarsi da scelte che in ogni caso li coinvolgono? Ecco, credo che un compito di chi ha ancora a cuore la costruzione di una formazione politica che esca dalle secche di un dibattito tutto ideologico e voglia invece misurarsi sul piano concreto delle proposte per farci uscire da ben altre secche, stia proprio nel trovarli quegli astensionisti, riconoscerli, parlargli, accogliere suggerimenti, incoraggiarli a riprendere una dimensione civica che aiuti loro stessi e gli altri. Gli strumenti ci sono, per cominciare. Gli elenchi elettorali; la distribuzione nei seggi dei vari numeri civici, via per via; i risultati elettorali di quei seggi; i confronti degli esiti nei vari turni elettorali. E il volantino nella cassetta della posta, con la proposta, l’invito a riflettere, a confrontarsi. Come si faceva una volta. Perché non riprovarci?

sabato 27 aprile 2013

IVA, IMU. Ma ‘ndo imu?


I calcoli dicono che l’ulteriore aumento dell’IVA dal 21 al 22 per cento previsto per il prossimo luglio costerà mediamente 103 euro all’anno per una famiglia normale, che vive cioè con un reddito sufficiente per pagare affitto, bollette, cibo e pochi altri consumi. Il calcolo non è difficile: se una famiglia di tre persone spende circa 500 euro al mese per il vitto, l’aumento comporterebbe un aggravio dei costi di 5 euro, cioè 60 all’anno. In una famiglia nella quale il mangiare rappresenta una delle spese più sostanziose. Altro discorso, invece, per le spese finalizzate a importanti o grandi acquisti: se vuoi comprarti un modello della Jaguar (ho dovuto cercare in rete i listini), che costa tra 50 e 60 mila euro, quell’1% rappresenterebbe 500 o 600 euro. E siccome chi si compra il modello della Jaguar è attento alla lira (!) proprio non gli va di dover cacciare tutti quei soldi in più. No, guardate, non è uno scherzo: la preoccupazione di chi vuole abolire l’aumento è proprio questa: che potrebbe colpire i consumi di lusso. La dimostrazione ulteriore è che l’abolizione dell’aumento significherebbe un costo per l’erario di due miliardi per il 2013 (un semestre) e di quattro per il prossimo anno. Dove si trovano questi soldi? Beh, semplice: basterebbe chiedere alla Fornero una consulenza per aumentare il numero degli esodati!


Più o meno identico ragionamento vale per la questione IMU. Ripetendo ancora una volta fino alla noia che parlare di prima casa è una sciocchezza (semmai di UNICA casa, e sempre che non sia di lusso), l’abolizione come la vuol fare Berlusca (dovrà risolvere che cosa considerare prima casa fra le tante che ha!) costa 4 miliardi per ogni anno a venire, più i quattro che sarebbero necessari per la restituzione che un po’ di pensionati babbioni stanno ancora aspettando davanti agli uffici postali. Dove trovare i soldi per questa grande impresa? Ci si potrebbe rivolgere a Pietro Ichino e farsi dire in che modo fregare ancora un po’ precari e lavoratori a tempo indeterminato e il problema sarebbe facilmente risolto.
Adesso attendiamo le decisioni del governissimo. Dopo le tanti lodi sperticate sulle novità introdotte (lodi davvero esagerate a guardare le facce, e soprattutto i curricula di un po’ di ministri: e non sono ancora arrivati i sottosegretari!) sarà davvero interessante conoscere le soluzioni inventate per i due problemini.

EVASIONE


Amore. l'amore, le mie parole
come pesciolini rossi
me le vedo intorno e poi piano piano
in questa atmosfera di confusione
c'è un'intenzione:
Evasione, evasione, evasione, evasione, evasione, evasione, evasione!

No, non ci riferiamo alla bella canzone di Gaber, vogliamo parlare dell’evasione fiscale. Il ricco padrone della destra la definisce un obbligo, una necessità: altri, invece, il male peggiore della società, ma spesso finiscono con l’essere ipocriti, perché non fanno nulla per combatterla davvero.
Guardiamo allora qualche dato. In Italia i contribuenti, esclusi quindi quei 10 milioni di cittadini che non pagano IRPEF perché hanno redditi lordi annui inferiori a 7500 euro (in gran parte pensionati, quindi), sono circa 25 milioni. Ma di questi, 20 milioni non possono evadere, anche se lo volessero: sono pensionati e lavoratori dipendenti che pagano le tasse dovute con la ritenuta alla fonte. Bene, restano circa 5 milioni di cittadini (anzi, per una parte di essi si dovrebbe usare il termine meno nobile di individui, perché si è cittadini solo se si rispettano doveri e diritti della cittadinanza). Come si comportano? Nel 2007 i titolari di partita IVA erano 5 milioni e 700 mila, compresi quindi quei lavoratori di fatto dipendenti ma costretti dalle tante iniquità contro il lavoro a subire un rapporto lavorativo di tal fatta. Quasi certamente non contribuiscono al volume d’affari, che per l’81% delle partite arrivava fino a 185.000 euro annui (e tanto meno a quel 19% che quella cifra la superava). Inoltre, sempre con riferimento al 2007, esistevano oltre un milione di società di capitali.
Dati più recenti descrivono questa società: il reddito medio lordo annuo di un lavoratore dipendente è di 20 mila euro, che scendono a 15.500 per un pensionato e salgono a 42.280 per un lavoratore autonomo. La sorpresa viene fuori dai calcolo per gli imprenditori, altrimenti noti come padroni: per loro il reddito medio lordo assomma a 18.840 euro annui, che scendono addirittura a 17.480 euro in caso di contabilità semplificata! Ma a chi la vogliono raccontare che un imprenditore guadagna meno di un lavoratore dipendente e solo 160 euro al mese più di un pensionato?


Insomma, si sa dove può annidarsi l’evasione, il problema è che non la si vuole colpire. Quando hanno introdotto il redditometro, hanno stabilito che l’accertamento forzoso poteva scattare solo quando la differenza tra reddito dichiarato e spese sostenute superava i 100.000 euro: una bella riduzione della platea! Anche perché gente del genere sa benissimo come cavarsela! Nessuna, o poca attenzione al fatto che, dalle stesse dichiarazione, emerge che ci sono 100.000 case di proprietà e 71.000 attività finanziarie all’estero, per non parlare dei paradisi fiscali e delle tante, troppe porcherie che continuano a restare impunite, e che portano l’evasione alla cifra impressionante di 180 miliardi di euro!
Insomma, una lotta seria all’evasione può farsi solo se si parte dalla volontà di correggere (è solo un eufemismo) il dato più esplicito di una società violenta fondata sulla disuguaglianza: il 5% dei più ricchi ha un reddito pari alla somma di quelli del 55% dei contribuenti. Lo conferma persino il fisco evaso, dal momento che i cosiddetti paperoni, cioè chi ha un reddito superiore a 300 mila euro, sono 28 mila.
Accertare quindi, come in qualche raro caso si riesce a fare. Ma non basta: occorre punire con maggior rigore, se davvero si vuole considerare l’evasione come un reato insopportabile.

giovedì 25 aprile 2013

TERESA MATTEI, UNA GRANDE DONNA


Si è svolta in Senato la commemorazione di Teresa Mattei, morta a 92 anni nel marzo scorso. Partigiana, la più giovane delle poche donne elette alla Costituente, Teresa si batté perché nell’articolo 3 ci fosse quel “compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Teresa era a Genova nel 2001, e usò parole forti per condannare la uccisione di Carlo e le violenze alla Diaz.
Teresa Mattei aveva anche indicato nella mimosa il fiore delle donne, di cui fare omaggio l'8 marzo.


La senatrice Puppato ha ricordato un episodio meritevole di iscrizione nella battaglia delle donne per l’uguaglianza: uno squallido omuncolo parlamentare la interpellò dicendole: “Signorina, lei non sa che le donne per qualche giorno al mese non ragionano?” Teresa non si lasciò sfuggire la possibilità di fulminarlo: “Lei non sa che molti uomini non ragionano per tutto il mese?”
Ne abbiamo esempi fluenti anche nell’attuale parlamento. Purtroppo.