venerdì 28 marzo 2014

SALLUSTI RINVIATO A GIUDIZIO PER LE OFFESE A CARLO



Si è svolta questa mattina l’udienza preliminare della causa che siamo stati costretti, come familiari e come Comitato Piazza Carlo Giuliani, ad intentare nei confronti del direttore del Giornale Alessandro Sallusti per quelle che riteniamo offese gravi rivolte all’indirizzo di Carlo in una trasmissione televisiva (Matrix) di qualche tempo fa.


L’udienza della GUP (giudice dell’udienza preliminare) era stata preceduta dalla decisione della GIP, giudice per le indagini preliminari, di avviare il procedimento penale, rigettando le argomentazioni della difesa e soprattutto del pubblico ministero, che aveva sostenuto che quelle frasi oltraggiose (“ha fatto bene, ha fatto bene!”, riferendosi allo sparo che ha ucciso Carlo) sono un’espressione che “va intesa nel senso che il carabiniere che ha fatto fuoco ha esercitato la legittima difesa”, chiedendo conseguentemente l’archiviazione. La giudice non ne ha tenuto conto, con la motivazione che “l’indagato ha ecceduto nell’esercizio del diritto di critica, trascendendo in una dolosa diffamazione della memoria del defunto Carlo Giuliani”. E più avanti ha aggiunto che “l’affermazione ha fatto bene in quanto riferita al modo cruento in cui il povero Carlo Giuliani ha cessato di vivere – è stato ucciso -, va molto al di là della critica politica ed è una palese manifestazione di disprezzo e di odio della persona del predetto, di cui diffama pervicacemente la reputazione e la memoria”.

Ieri, mattina, come si ricordava all’inizio, c’è stata l’udienza preliminare. E, ovviamente, la difesa di Sallusti ha sostenuto come pregiudiziali l’improponibile partecipazione del Comitato e la scelta della sede processuale. Il pubblico ministero di questa udienza le ha respinte entrambe, ritenendo del tutto legittima la presenza nel procedimento del Comitato, che nel suo statuto prevede fra i compiti proprio l’attenzione a che la verità su tutti gli avvenimenti genovesi (e non solo) non venga stravolta, e motivando la piena legittimità della scelta di Genova come sede del processo dal momento che l’offesa riguarda proprio persone e associazioni che risiedono a Genova e che questo fatto rende ininfluente che le offese (se saranno ritenute tali) siano state rivolte nella sede della trasmissione, data la diffusione nazionale della trasmissione stessa. Risolte così le ininfluenti questioni delle pregiudiziali il PM, in piena coerenza con le decisioni del GIP, ha sostenuto la necessità di avviare il procedimento penale, posizione condivisa dal GUP che ha fissato la prima udienza per il prossimo 19 giugno.

Bene. Resta tuttavia da chiedersi come sia possibile che, all’interno dello stesso palazzo, il tribunale in questo caso, e sullo stesso accadimento, due pubblici ministeri, che svolgono il loro lavoro a difesa della stessa legge e in nome dello stesso popolo e della stessa Costituzione, possano esprimere due posizioni così palesemente contrapposte. Resta un interrogativo per certi aspetti inquietante. Ma certo non nuovo. Basta tornare a Genova, a un pubblico ministero e a una gip che decidono l’archiviazione dell’omicidio di Carlo, e a pubblici ministeri che si battono per stabilire le responsabilità e le colpe di altissimi funzionari della polizia e di dirigenti per le nefandezze compiute alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto. O anche a giudici che in primo grado assolvono tutti alla Diaz (“perquisizione legittima”) e in appello e poi in cassazione confermano invece la colpevolezza (“macelleria messicana, falsi e degrado dell’onore dell’Italia nel mondo”). Certo, è difficile non pensare che le prime decisioni (archiviazione del fatto più grave accaduto e menzogne sulle conseguenze di un disordine pubblico provocato in primo luogo dalla volontà di reprimere quel movimento) fossero orientate dalle decisioni politiche della destra al governo. Ma oggi, dopo che molta luce sulle giornate genovesi è stata fatta, valutazioni così contrapposte restano difficilmente comprensibili. Attendiamo con trepidazione l’avvio del procedimento.

SALLUSTI RINVIATO A GIUDIZIO PER LE OFFESE A CARLO



Si è svolta ieri mattina l’udienza preliminare della causa che siamo stati costretti, come familiari e come Comitato Piazza Carlo Giuliani, ad intentare nei confronti del direttore del Giornale Alessandro Sallusti per quelle che riteniamo offese gravi rivolte all’indirizzo di Carlo in una trasmissione televisiva (Matrix) di qualche tempo fa.

L’udienza della GUP (giudice dell’udienza preliminare) era stata preceduta dalla decisione della GIP, giudice per le indagini preliminari, di avviare il procedimento penale, rigettando le argomentazioni della difesa e soprattutto del pubblico ministero, che aveva sostenuto che quelle frasi oltraggiose (“ha fatto bene, ha fatto bene!”, riferendosi allo sparo che ha ucciso Carlo) sono un’espressione che “va intesa nel senso che il carabiniere che ha fatto fuoco ha esercitato la legittima difesa”, chiedendo conseguentemente l’archiviazione. La giudice non ne ha tenuto conto, con la motivazione che “l’indagato ha ecceduto nell’esercizio del diritto di critica, trascendendo in una dolosa diffamazione della memoria del defunto Carlo Giuliani”. E più avanti ha aggiunto che “l’affermazione ha fatto bene in quanto riferita al modo cruento in cui il povero Carlo Giuliani ha cessato di vivere – è stato ucciso -, va molto al di là della critica politica ed è una palese manifestazione di disprezzo e di odio della persona del predetto, di cui diffama pervicacemente la reputazione e la memoria”.

Ieri, mattina, come si ricordava all’inizio, c’è stata l’udienza preliminare. E, ovviamente, la difesa di Sallusti ha sostenuto come pregiudiziali l’improponibile partecipazione del Comitato e la scelta della sede processuale. Il pubblico ministero di questa udienza le ha respinte entrambe, ritenendo del tutto legittima la presenza nel procedimento del Comitato, che nel suo statuto prevede fra i compiti proprio l’attenzione a che la verità su tutti gli avvenimenti genovesi (e non solo) non venga stravolta, e motivando la piena legittimità della scelta di Genova come sede del processo dal momento che l’offesa riguarda proprio persone e associazioni che risiedono a Genova e che questo fatto rende ininfluente che le offese (se saranno ritenute tali) siano state rivolte nella sede della trasmissione, data la diffusione nazionale della trasmissione stessa. Risolte così le ininfluenti questioni delle pregiudiziali il PM, in piena coerenza con le decisioni del GIP, ha sostenuto la necessità di avviare il procedimento penale, posizione condivisa dal GUP che ha fissato la prima udienza per il prossimo 19 giugno.

Bene. Resta tuttavia da chiedersi come sia possibile che, all’interno dello stesso palazzo, il tribunale in questo caso, e sullo stesso accadimento, due pubblici ministeri, che svolgono il loro lavoro a difesa della stessa legge e in nome dello stesso popolo e della stessa Costituzione, possano esprimere due posizioni così palesemente contrapposte. Resta un interrogativo per certi aspetti inquietante. Ma certo non nuovo. Basta tornare a Genova, a un pubblico ministero e a una gip che decidono l’archiviazione dell’omicidio di Carlo, e a pubblici ministeri che si battono per stabilire le responsabilità e le colpe di altissimi funzionari della polizia e di dirigenti per le nefandezze compiute alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto. O anche a giudici che in primo grado assolvono tutti alla Diaz (“perquisizione legittima”) e in appello e poi in cassazione confermano invece la colpevolezza (“macelleria messicana, falsi e degrado dell’onore dell’Italia nel mondo”). Certo, è difficile non pensare che le prime decisioni (archiviazione del fatto più grave accaduto e menzogne sulle conseguenze di un disordine pubblico provocato in primo luogo dalla volontà di reprimere quel movimento) fossero orientate dalle decisioni politiche della destra al governo. Ma oggi, dopo che molta luce sulle giornate genovesi è stata fatta, valutazioni così contrapposte restano difficilmente comprensibili. Attendiamo con trepidazione l’avvio del procedimento.


mercoledì 13 novembre 2013

PENA RIDOTTA MA SEMPRE INGIUSTA



Poco più di due ore sono state sufficienti per la decisione della Corte d’Appello di Genova che doveva limitare il suo intervento alla richiesta della Cassazione di valutare le eventuali riduzioni di pena a carico di cinque manifestanti coinvolti negli avvenimenti di Genova 2001. E’ utile ricordare che i pm Anna Canepa e Andrea Canciani accusarono venticinque manifestanti di essere responsabili di tutto quello accaduto a Genova il 20 e 21 luglio, ricorrendo addirittura al rispolvero di un articolo del codice fascista Rocco, recepito nell’ordinamento ma mai applicato prima, che prevede il reato di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. I successivi tre gradi di giudizio avevano in gran parte smentito la incredibile elaborazione dei pubblici ministeri e in Cassazione quindici di quei venticinque vennero o assolti o condannati a pene minime cadute in prescrizione, perché ritenuti responsabili al più di un “reato di resistenza” (che sarebbe davvero assurdo considerare tale), nel senso che le loro azioni erano state provocate da “cariche violente e ingiustificate” dei reparti di carabinieri. Per i restanti dieci, quasi come compensazione, vennero confermate pur con qualche riduzione pene rilevantissime per reati comunque riconducibili a danni alle cose e non a persone (in appello si erano erogati fino a 16 anni di carcere e anche in questo caso va ricordato che quattro poliziotti delinquenti riconosciuti responsabili dell’omicidio di Federico Aldrovandi sono stati condannati ciascuno a tre anni e mezzo, quindi quattordici anni in tutto). La Cassazione chiese per cinque di essi di ritornare in Appello per la valutazione delle attenuanti. La sentenza ha accolto in gran parte le richieste della difesa e per quattro dei cinque ha ridotto la pena di due anni, cosa che consentirà almeno l’affidamento ai servizi sociali.


E’ significativo rimarcare che nella requisitoria il Procuratore generale si è dichiarato favorevole alla riduzione della pena, anche se in misura inferiore a quella poi decisa dalla Corte. Una delle ragioni fondamentali di questa posizione sta nella convinzione espressa nelle requisitoria che a determinare il comportamento degli accusati vi erano stati anche gli abusi delle forze dell’ordine e la follia nella gestione dell’ordine pubblico che caratterizzò quelle tragiche giornate. Nulla di diverso, quindi, dalle motivazioni della stessa sentenza della Cassazione. Ma ancor più nulla di diverso dalla sentenza con la quale un’altra sezione della Cassazione aveva concluso il processo per la macelleria  messicana alla scuola Diaz. I più alti gradi della polizia, altissimi grazie anche alle promozioni che nel frattempo erano intervenute, sono stati condannati a quasi cinque anni di carcere (che non faranno mai!), ma soprattutto a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, già avvenuta. La motivazione consiste nell’aver “prodotto il degrado dell’onore dell’Italia nel mondo”. E si riferisce al falso vergognoso commesso da questi ignobili dirigenti, che obbligarono dei sottoposti a introdurre nella scuola due bottiglie molotov al fine di poter incolpare i 93 innocenti che dormivano nella scuola del reato di terrorismo. Va segnalato, a conferma della difficoltà di fare del nostro un paese davvero civile, che quegli alti dirigenti risultano tuttora insigniti di onorificenze al merito della Repubblica (d’altra parte è sempre cavaliere anche il presidente delinquente!). 


L’esito del processo Diaz (va ricordato che in primo grado erano stati tutti assolti, e che il giudizio si era piegato alla volontà politica di considerare l’operazione Diaz una “perquisizione legittima”, come tutto il peggior ciarpame della destra e del gruppo dirigente si ostinava a ripetere) si deve alla dignità professionale, alla coerenza morale e al coraggio di Enrico Zucca e di Francesco Cardona Albini, i due pubblici ministeri che si batterono ostinatamente perché giustizia fosse fatta, nonostante minacce e ritorsioni. Quella sentenza, nel buio che spesso circonda i peggiori “delitti” dello Stato, deve essere considerata davvero illuminante, e i suoi dettati si sono certamente riflessi anche nell’esito che ha avuto oggi la sentenza d’appello che ha riguardato le attenuanti per i manifestanti.
E’ difficile dimenticare che per sostenere quella sentenza fu decisivo un filmato di pochi secondi che riprese tutto il gruppo davanti alla scuola a gingillarsi fra le mani un sacchetto di plastica blu contenente le due molotov; mentre interi filmati e centinaia di fotografie non furono sufficienti a impedire l’imbroglio di quattro consulenti (lo sparo per aria!) e la decisione di due magistrati inadeguati di archiviare l’omicidio di Carlo sottraendolo anche a un dibattimento processuale.

giovedì 4 luglio 2013

UNA CARRIERA SENZA FINE



A volte ci sono nomine che suscitano qualche perplessità. Perché non si conoscono le competenze specifiche dei nominati, o perché è difficile individuarle. Perché riguardano protagonisti di vicende precedenti che consentono di sollevare dubbi. Perché alla fine sembra che l’unica logica sia quella dei meccanismi del potere. L’ultimo esempio, forse, lo può fornire la proposta di nominare Gianni De Gennaro presidente di Finmeccanica. E in questo caso si tratta certamente di un percorso incontrastato lungo il potere. Con caratteristiche bi-partizan, potremmo dire.
Dopo aver preso parte all’estradizione di Buscetta e assunto l’incarico di dirigente della Criminalpol, De Gennaro viene nominato vicecapo della polizia da Maroni, che è ministro degli Interni nel primo governo Berlusconi (1994). Manco a dirlo, Amato lo promuove capo appena giunto a presiedere il governo di centrosinistra, nel maggio 2000. Poi c’è Genova, la Diaz, ma di questo parliamo più avanti.
Nel 2007 Amato è ministro degli Interni nel governo Prodi: quale migliore occasione per nominare De Gennaro capo di gabinetto, e dirigere così nomine e promozioni di prefetti e questori! Un anno dopo Prodi scopre che c’è l’emergenza rifiuti in Campania. Ci vuole l’uomo giusto, e tacchete, De Gennaro viene nominato commissario straordinario. E’ l’11 gennaio 2008. Il problema è pesante, l’incarico non produce effetti positivi, la monnezza dilaga. Per fortuna Prodi cade, torna B. e il 26 maggio un’altra gloriosa b (ovviamente Bertolaso) sostituisce De Gennaro, che si consola con la direzione del DIS, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Poi, con Monti, un’altra promozione: sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega ai servizi. Secondo alcuni questo potrebbe essere un intoppo alla prevista nomina, perché chi ha assunto incarichi di quel tipo non può assumere il nuovo ruolo nei successivi 12 mesi, cioè fino all’aprile 2014. Ma un marchingegno lo si troverà certamente, anche Napolitano è d’accordo.


In mezzo ci sono Genova e La Diaz. Rileggiamo le  motivazioni della sentenza della Cassazione con la quale i più alti dirigenti della polizia, fra i quali Francesco Gratteri, tutti uomini di De Gennaro, sono stati condannati a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. “… la decisione di irrompere nella scuola Diaz era stata preceduta dalla seconda riunione, tenutasi presso la Questura di Genova, e Gratteri - secondo la direttiva giunta dal capo della polizia che richiedeva un’attività più incisiva dopo i gravi fatti che avevano interessato la città di Genova – aveva assunto la funzione di comandante secondo la linea di comando, una volta venuta meno la figura di Andreassi, il quale non aveva partecipato alla seconda riunione in quanto dissociatosi dalla linea assunta per lo svolgimento dell’operazione, sconsigliata – a suo dire – anche dall’allora indagato La Barbera, come già evidenziato, il quale aveva notato “questo nervosismo”, aveva “subodorato che le cose non sarebbero andate bene, perché ognuno conosce gli animali suoi”.
Nell’aprile 2008 era stato richiesto il rinvio a giudizio per De Gennaro per istigazione alla falsa testimonianza nei confronti dell’ex questore di Genova Francesco Colucci. Dopo l’assoluzione in primo grado e la condanna in appello, il terzo grado lo ha assolto nel novembre 2011. Ma la motivazione della sentenza della Cassazione che abbiamo riportato non si presta ad equivoci: c’è una responsabilità nell’aver “richiesto un’attività più incisiva”, e di quale incisività si sia trattato e fin troppo noto per doverlo ricordare ancora una volta.
Allora il punto resta sempre lo stesso di tante, troppe volte. In qualunque altro paese civile un individuo che può essere ritenuto in qualche modo responsabile, anche se non penalmente, di fatti di tale gravità conclude immediatamente la sua attività pubblica, non viene nominato sottosegretario, non dirige i servizi. A nessuno viene in mente di proporlo alla guida della maggiore industria pubblica esistente. Ah già, ma noi abbiamo il governo Lupetta!

giovedì 27 giugno 2013

NON SI ARCHIVIA UN OMICIDIO



Negli ultimi giorni molta stampa è tornata ad occuparsi dell’omicidio di Carlo. Ha cominciato addirittura il Corriere della sera, verrebbe da dire nonostante Mieli e Battista, segnalando l’indizione della causa civile per avere finalmente la possibilità di un dibattimento in un’aula di un tribunale e anche importanti dettagli sullo svolgimento dei fatti. Poi il Messaggero, Repubblica (l’edizione genovese è sempre stata presente sulla vicenda), il Corriere Mercantile. Una brava giornalista del Secolo XIX mi ha intervistato davanti a un computer sul quale scorrevano le immagini di quel terribile pomeriggio di dodici anni fa. Ne è nato un filmato di oltre sette minuti apparso sulla pagina on-line del quotidiano genovese che alcune migliaia di persone hanno visto (oltre naturalmente ai molti amici di FB che hanno condiviso il link). Dico alcune migliaia perché il contatore dei “mi piace”, sicuramente non cliccato da molti visitatori, ha superato quota mille e cento. Pochi i commenti, una decina, fra i quali spiccano ovviamente quelli di qualche idiota, o carabiniere, o fascista (a volte le tre caratteristiche si sommano nello stesso individuo, come è stato dimostrato la sera del 20 luglio 2001 dal canto di “faccetta nera” che si levava dalla Foce di Genova, dove erano acquartierati proprio i reparti dei carabinieri impegnati nelle azioni repressive più violente). Tra quelli meno volgari sono ricorrenti alcune sottolineature: passamontagna, voglia di uccidere con l’estintore, e naturalmente camionetta circondata da un numero enorme di violenti, impossibilità di difendersi altrimenti e via con le falsità.
Sono dodici anni che cerchiamo di spiegare e dimostrare, sulla base della enorme documentazione, come si sono svolti i fatti, e quindi ripropongo qui le osservazioni che ritengo più significative. Chi si ostina a ripetere fino alla noia le veline del regime non vuole rispondere a una prima domanda essenziale: perché quel reparto di cc, che è comandato da un gruppo di élite (così si dice senza imbarazzo) e che ha partecipato fin dalla Somalia (1994) a tutte le campagne di guerra Iraq e Iran compresi, va all’attacco di fianco al corteo di via Tolemaide, senza alcuna motivazione razionale e oltretutto aggirando l’aiola centrale di piazza Alimonda per creare un effetto sorpresa? E perché (seconda domanda) in quel tratto di via Caffa ci sta meno di un minuto e poi scappa a gambe levate, dicendo che erano attaccati da migliaia di violenti, che dai cinquanta reali diventano migliaia perché altrimenti la fuga del reparto si tramuterebbe in reato di codardia? E perché (terza domanda) quando le due camionette si ostacolano a vicenda (ma gli fanno almeno un corso di guida?!) una di esse, accostatasi a un cassonetto della spazzatura che è lì da un’ora, non lo spinge perché l’autista non vuole far male a un collega che da dietro il cassonetto spruzza verso i manifestanti? E soprattutto perché (quarta domanda) gli ottanta cc con tanto di tenente colonnello in testa non intervengono in difesa della camionetta sul retro della quale non ci sono migliaia di violenti ma sedici manifestanti giustamente esasperati (fra i quali si devono contare già alcuni fotografi)? Tutto ciò costituisce una chiara e manifesta responsabilità dello Stato attraverso quelli che in quella circostanza sono, purtroppo, i suoi rappresentanti. 


Le distanze che si desumono da alcune fotografie non tengono conto che si sono usati teleobiettivi molto potenti. Ma se metti a confronto quelle scattate da due diverse angolazioni tutto diventa chiaro. Così quando un filmato mostra un manifestante con casco giallo che solleva da terra un estintore (portato fin lì da un cc) e lo lancia verso il portellone del defender, la distanza effettiva di quel manifestante dalla jeep è di oltre quattro metri. Stessa cosa per quanto accade dall’altra parte sulla destra della jeep. Carlo arriva a mani nude, il passamontagna gli hanno consigliato di indossarlo per difendersi dal gas CS (velenoso e cancerogeno) contenuto nei candelotti (ne hanno sparati più di seimila in due giorni). E’ distante. Vede che l’estintore, che non ha causato danni agli occupanti, è rotolato a quattro o cinque metri dal retro della jeep. Vede che sul defender un occupante impugna una pistola e mette il colpo in canna. Va a raccogliere l’estintore e, senza avanzare di un centimetro, lo raccoglie per cercare di disarmare chi vuole sparare e minaccia di uccidere. Partono due colpi, diretti. Il primo colpisce sotto l’occhio sinistro Carlo, che rotola verso la jeep. L’autista, che parla di panico e di motore spento (non è vero), ingrana la retromarcia, passa su Carlo, ingrana la prima, ripassa su Carlo e sparisce di scena in quattro secondi. Dopo meno di due minuti, quando Carlo steso per terra è circondato da un robusto cordone di cc e poliziotti (il reparto di ps è risalito da piazza Tommaseo), succede una cosa per certi verso persino più terribile: un cc gli spacca la fronte con una pietrata (c’è ancora un’attività cardiaca) e subito dopo il vice questore Adriano Lauro (che tirava i sassi ai manifestanti in via Caffa) accusa un manifestante che ha gridato giustamente “assassini” alle forze del disordine schierate di avere ucciso Carlo con un sasso. Poi, un anno dopo, si aggiungerà l’imbroglio dei quattro consulenti del pm che inventano lo sparo per aria e la deviazione da parte di un calcinaccio che vola nel cielo di Genova.
Chi ha sparato? Dicono Placanica, e per questo citiamo lui nella causa civile, oltre a Lauro, che è responsabile in piazza delle operazioni. Vogliamo un processo per portare in un’aula di tribunale la documentazione che avete visto nel filmato del Secolo XIX e smentire così tutte le falsità che ci, e vi, hanno raccontato. Quella documentazione e tanta altra ancora. Non portarla, spostarla da una stanza all’aula, perché tutta quella documentazione viene proprio dal tribunale di Genova. Solo che chi avrebbe dovuto valutarla si è ben guardato dal farlo. Meglio archiviare.
A luglio esce il libro che ho scritto: Non si archivia un omicidio. Chi sa se qualcuno dei commentatori non del tutto idioti vorrà documentarsi ancora un po’!

domenica 23 giugno 2013

L’IVA E LE SCIOCCHEZZE

La CGIA di Mestre è considerata una struttura che sa far di conto e quindi prendiamo per buoni i suoi dati. In aprile ha pubblicato una interessante tabella per illustrare le ricadute dell’aumento di un punto dell’IVA. I dati apparvero sulla stampa per qualche giorno poi scomparvero, quando il tono politico cominciò a essere quello della “mannaia calata sulle teste degli italiani”, di un “ulteriore aggravio della recessione”, di una“manovra che colpisce ancora di più la crescita”. Perché? Perché i dati confermavano un’altra storia e dimostravano che erano ben altre le scelte e le decisioni che colpivano gli italiani, e in particolare quelli più deboli. Dei quali le scelte di governo si occupano solo verbalmente, per convenienza, e mai sul serio.
E allora guardiamo i dati della tabella della CGIA e commentiamoli.
Prima questione. L’aumento di un punto comporterebbe un aggravio di 103 euro su base annua (8,58 al mese) per una famiglia di 4 persone in grado di spendere 31.278 euro nel corso dell’anno. Documenta la CGIA che per una famiglia di 3 persone l’aggravio annuo sarebbe invece di 88 euro (7,33 al mese), con una capacità di spesa ovviamente ridotta. E’ interessante vedere come la CGIA ha individuato i settori di spesa della famiglia di 4 persone, ricordandone i principali. Ci sono ad esempio 7.400 euro di spesa alimentare, per i quali l’incremento annuo dell’IVA sarebbe di soli 2 euro (occorre ricordare che i prodotti fondamentali, pane pasta riso latte verdure, hanno l’IVA al 4%, carne pesce formaggi al 10%, ma per questi non è previsto nessun aumento; un prodotto colpito sarebbe lo spumante, ma è difficile considerarlo un bene primario, e in ogni caso la CGIA prevede che quella famiglia ne faccia un moderato consumo dal momento che prevede una maggiorazione su base annua di 2 euro!). Altri 2500 euro per abbigliamento, 2000 per i mobili, 1770 per il tempo libero la cultura e i giochi, 4300 per non meglio identificati beni e servizi, 729 per comunicazioni (accidenti ai telefonini!) e ben 6358 per i trasporti (sarebbe il caso che in quella famiglia si facessero qualche abbonamento).


Ma la cosa strabiliante è che i 103 euro di aggravio sono calcolati per una famiglia in grado di spendere più di 31 mila euro, quindi netti. Non viene in mente a nessuno di comparare questo dato con le dichiarazioni dei redditi? Per avere un netto di 31 mila euro il reddito lordo deve essere di 45.000 euro. Ebbene: la metà dei contribuenti italiani denuncia un reddito inferiore a 15.723 euro; il reddito medio per tutti i contribuenti è pari a 19.655 euro; quello dei lavoratori dipendenti è pari a 20.020 euro; quello dei pensionati a 15.520. Naturalmente, quello degli imprenditori è pari a 18.884, perché, come è noto, un padrone guadagna meno di un operaio che lavora per lui!
Allora, per famiglie normali, anche se lavorano in due, il reddito disponibile per la spesa è molto inferiore a quello sul quale la CGIA ha impostato i suoi calcoli, per altro giusti. Ed essendo inferiore, è persino ovvio che le riduzioni di spesa riguardino mobilia, abbigliamento, generici beni e servizi, cultura (purtroppo!) e trasporti (meglio abbonamenti e a piedi, quando è possibile!). Non riducendo le spese alimentari, per le quali l’aumento è come detto assolutamente ininfluente, si può dedurre che per una delle tante famiglie “normali” l’incidenza dell’aumento dell’IVA è pressoché prossimo allo zero o al più si riduce a qualche centesimo di euro al mese. E allora? La mannaia, la crescita colpita, la recessione? Tutte balle, tutto fumo negli occhi, pure campagne elettorali di queste bande farneticanti che pretendono di governarci. Il problema è che l’IVA sullo yacht e sulla Ferrari con l’aumento di un punto produrrà un aggravio di 10, 20 mila euro, e a quei maiali che si devono comprare lo yacht e la Ferrari dispiace! I consumi diminuiscono perché aumenta la povertà, perché aumentano disoccupati, precari, esodati, perché crescono le preoccupazioni e le angosce per il futuro. Ma di questo le caste non si occupano.
Basta vedere che fra le proposte per recuperare il gettito del punto in più di IVA (2 miliardi nei prossimi sei mesi, 4 e qualcosa il prossimo anno) c’è anche quella di aumentare le accise sulla benzina. Sono anche dei veri idioti: l’aumento del costo della benzina è stata una delle concause della riduzione degli acquisti di carburante (non male rispetto all’inquinamento, ma comunque un segnale di restringimento del reddito), e il calo del gettito fiscale proveniente dalle vendite è stato più alto del guadagno previsto con l’aumento delle accise!

Alla prossima.

martedì 11 giugno 2013

VOTO: ANALISI DI UNA VOLTA

Già, una volta. Non solo si votava diversamente, ma anche l’analisi del voto era più seria. Intanto perché non ci si basava sulle percentuali, spesso ingannevoli, ma sui voti effettivi. E allora proviamoci.
Un dato è certo: in tutte le città capoluogo a cominciare da Roma nelle quali si è votato al ballottaggio, il candidato del PD e della coalizione che lo sosteneva hanno vinto superando il numero di voti ricevuti al primo turno, e ciò nonostante la crescita dell’astensionismo. Succede appunto a Roma, dove Marino acquisisce oltre 150.000 voti in più nonostante 183 mila votanti in meno, mentre Alemanno si deve accontentare di 10 mila voti in più, la metà di quelli che al primo turno sono andati a liste della destra fascista, i cui sostenitori avranno pur riconosciuto una vicinanza con le origini dell’ex sindaco. Non credo possano esistere dubbi sul fatto che una parte consistente dei voti grillini del primo turno (erano stati più di 130 mila) siano andati a Marino, che oltre tutto li aveva esplicitamente richiesti. Ma la stessa cosa avviene a Brescia (Del Bono guadagna più di 12 mila voti mentre il pidiellino si deve accontentare di un incremento  di soli 2 mila voti), a Treviso (Manildo migliora di 4 mila voti mentre il trucido sceriffo leghista si ferma a 3 mila) e a Imperia (il candidato piddino conquista 3 mila voti in più mentre il pidiellino scajolano arretra addirittura di 2 mila voti). Il PD festeggia con un 16 a 0 il voto delle grandi città, alle quali potrà probabilmente aggiungere le quattro città capoluogo della Sicilia, realizzando un vero cappotto: 20 a zero (e prima delle elezioni il punteggio era di parità, 10 a 10, ma con dentro città come Roma, Brescia, Vicenza, Viterbo, Catania, Messina che erano tutte a gestione berluschina).


Dalla Sicilia viene un risultato importante: la quasi scomparsa del movimento grillino. Alcuni dati, fra quelli pervenuti dato l’allucinante ritardo nello spoglio, la dicono lunga. A Catania, dove vince Bianco al primo turno (e non è una bella cosa, dato il livello dell’individuo) Grillo retrocede dai 18 mila voti delle regionali del 2012 e dai 48 mila delle politiche di tre mesi fa a 5.869 voti. Idem a Siracusa: dai 19 mila del 2012 e dai 22 mila e passa di tre mesi fa a 2.315 voti. Buffoni del calibro del comico e di quel sedicente filosofo genovese dicono che hanno vinto a Pomezia, in un paesino sardo e che, forse, vanno al ballottaggio a Ragusa. Chi si contenta gode, dice un tiepido proverbio, ma la questione sembra proprio un’altra: tre mesi di figuracce, di insipienza, di non fare nulla rispetto alle promesse hanno già stancato e disilluso una fetta enorme di cittadini che a quel movimento si erano rivolti attratti dalle imprecazioni contro la casta, assolutamente giuste ma altrettanto assolutamente insufficienti a determinare un orientamento politico e soprattutto una strategia con la quale tentare di portare a soluzione almeno uno dei problemi che affliggono sempre di più il paese.
Resta impressionante la celerità con la quale si cambia opinione nei confronti delle cinque stelle contrapposta alla lentezza con la quale ci si allontana da quel buco nero della decenza e della politica rappresentato dalla truppa berlusconiana. Ma può destare impressione anche il fatto che, nonostante l’inciucio, altrimenti detto larghe intese dai suoi promotori, e il conseguente governo Lupetta (ringrazio ancora una volta Crozza per una delle sue genialità: Lupi+Letta=Lupetta!), una parte ancora così rilevante del corpo elettorale, per quanto ulteriormente ridotto dall’astensione, abbia dato fiducia al PD. Conta indubbiamente la logica del meno peggio, anche se non sempre è così (nel senso che al peggio non c’è mai fine!) o in qualche caso non lo è davvero (vedi Roma, dove sicuramente la scelta di Marino è stata un’ottima scelta, basta guardarsi indietro!). Credo che prevalga lo smarrimento derivante dalla assenza di alternative. E qui il discorso ritorno al dramma della sinistra, al suo sempre più ridotto consenso, alla incapacità di offrire risposte credibili, alla sterile contrapposizione tutta ideologica e mai nel merito delle questioni. Oltre a prove di vero e proprio istinto suicida. L’altro giorno sentivo un compagno di Rifondazione esaltare con convinzione il bisogno di correnti all’interno di un partito. Come dire che, superata in discesa la soglia dell’1% ci si debba limitare alla conquista del 2 o 3 per mille dei consensi.
No, non credo proprio che quel terzo abbondante di cittadini che non votano si possano interessare alle dispute correntizie. Facciamo qualcosa prima che quel terzo diventi metà o anche più. E soprattutto non consoliamoci con la raggiunta assimilazione all’andamento presente in molti paesi dell’occidente. In quei paesi non si era mai superata la soglia del 90% di partecipazione e quindi i loro livelli attuali sono un lento calo, non un precipizio. Se c’è un precipizio ci casca dentro anche ciò che resta della democrazia.